Pochi e labili gli indizi in cronache e vecchi manoscritti: sbiadite tracce di transiti che abbiamo seguito -inseguito- ritrovandoci, come funamboli, vertiginosamente in bilico tra memorie e omissioni, tra l’inconfutabile dato e l’arbitrio dell’interpretazione, tra il tempo in apparenza immobile, nella ciclicità di vita-morte, dell’esistenza individuale, e quello dinamico e progressivo della storia.
Un recupero, tuttavia, ostinatamente perseguito, il cui senso anche per noi resta ambiguo: tentativo di leggere, attraverso minime storie di vita in una spazialità urbana marginale rispetto all’Europa, l’appassionante storia di un secolo centrale nella costruzione della coscienza civile in Occidente; ma soprattutto, forse, esigenza di legittimare la nostra appartenenza alla smemorata contemporaneità; esorcizzare, cioè, l’acuta e paralizzante percezione che la coscienza smarrita nel tempo ha di sè stessa -la consapevolezza della ‘gracilità del momento’ di cui parla Pessoa- ad essa restituendo frammenti della sua cieca e immemore avventura nel tempo che ha nome passato.
Attraverso la deliberata, lucida, infedeltà della scrittura.